Un anno dopo: riflessioni e spunti
di Marco Pannella
Avevo auspicato e proposto al Partito Radicale, subito dopo le elezioni, di organizzare un convegno su via Rasella. Un convegno che consentisse intanto una migliore conoscenza dell’episodio, e quelle testimonianze orali che rischiano di perdersi per sempre; e stimolasse un confronto politico, un dialogo drammatico quanto necessario e opportuno. Ma anche un convegno che nutrisse di un nuovo fatto la riflessione e il dibattito, anziché rischiare di svolgerli ancorati all’episodio del mese di marzo, all’aggressione feroce e violenta del Pci, o ripiegati su se stessi.
Via Rasella? Ripeto, è una pagina “nostra”…
È a questo punto opportuno ricordare con il massimo di precisione l’oggetto o l’occasione di quell’ormai lontano intervento. Ad un PCI, ed al potere, paurosamente scatenati contro il terrorismo, tentati di darne una interpretazione o demonizzante o arbitraria, di combatterlo con stile e mezzi terroristici anch’essi, ho cercato di ricordare come nella storia del cattolicesimo popolare (quindi politico) e in quella comunista e democratica mi sembrava agevole riscontrare antecedenti, equivoci, convinzioni e scelte che almeno soggettivamente potevano aiutare a comprendere – per »modificarlo , cioè batterlo – l’itinerario del “terrorismo”. Da anni, dopo il 1968 in presa diretta, in polemica esplicita (e – sembrava – isolata, disperata, battuta) con i nuovi aedi e pratici delle varie “violenze” o “controviolenze” rivoluzionarie (fossero de Il Manifesto o di Potere Operaio, di Lotta Continua o dell’Unione), ma anche ben prima, a proposito della guerra di liberazione algerina (che pur mi vide partecipe) e poi di quella vietnamita, andavo ripetendomi. Da anni polemizzavo e lottavo contro quel che m’appariva e definivo il perenne ritorno del vecchio nihilismo, e proponevo letture “soggettive” degli attori delle violenze che potevano esser aiutate – sostenevo – e dal mondo dostojeskiano e da quello psicanalitico, in specie reichiano.
Nella prefazione al libro di Andrea Valcarenghi Underground a pugno chiuso nel 1973, o a quello di Mario Appignani nel 1976, pur non menzionando via Rasella, avevo già centrato comportamenti e posizioni altrettanto sacralizzati. Definire, quindi, via Rasella come una “pagina”, forse necessaria ma certo tragica e dolorosa, del libro della Resistenza; rivendicarla, contro ogni verosimiglianza, come “nostra”; avvertire che ritenevo che, noi per primi, fossimo “fascisti” (e non solamente “violenti”, o “stalinisti”) sette volte al giorno; attribuire con certezza, e quasi come per contezza, sofferenza e tormento a chi decise quell’azione… terroristica, di guerra; dire, di Carla Capponi e di altri di Via Rasella, la “nostra compagna”, mostrava quanto tenessi a non ingaggiare gratuitamente o per motivi pratici immediati, legati alle elezioni o alla vita del partito, una polemica sul passato; ma piuttosto a meglio armarci nel presente contro “fratelli” e compagni “assassini”. Era, semmai, tentare di parlare innanzitutto a loro; parlare alla nuora del PCI, perché la suocera del terrorismo (e perché no? anche quella dell’Autonomia organizzata e più dichiaratamente violenta) intendesse.
Non escludo d’altra parte che questo sia in buona parte accaduto. Dal PCI, invece, in poche ore, l’anatema medievale nel palazzo dei Congressi, anzi nel Palasport, quasi nuovo Colosseo quel giorno, con diecimila persone in piedi ad applaudirlo freneticamente e con fenomeni di allucinazione collettiva (Pannella-Nosferatu con cappa nera, anziché in loden blu…), pronunciato dai massimi Pontefici del Sindacato e del Partito, Luciano ama e Giorgio Amendola. La dissennata iniziativa dello stesso Amendola e di Antonello Trombadori di denunciarmi alla Procura della Repubblica per… vilipendio delle forze armate (della Resistenza, beninteso) costituisce però, a questo punto, l’episodio più illuminante di una posizione tuttora ideologicamente filo-terroristica.
…ma non un titolo di gloria
Dando per ipotesi ch’io avessi criticato o offeso l’azione di via Rasella, Amendola e Trombadori affermavano infatti che questa, di per sé, costituiva titolo di gloria e sintesi propria della epopea della Resistenza; non già – quindi – necessità tragica, obbligata, contraddittoria come è sempre la guerra e l’uccisione del nemico soggettivamente innocente, del soldato qualunque, e non del Ministro, del Tiranno, o del Generale ; ma emblema del Giusto, d’una “buona azione”, anche rispetto al dubbio, che riecheggiava nelle mie parole, sulla possibilità di un esito diverso – da preparare – rispetto a quello – automaticamente prevedibile e preannunciato – delle Fosse Ardeatine. E men che mai possibile e legittimo errore…
Ecco quindi che il discorso diventa sempre più attuale e scottante, se guardiamo anche a un PCI praticamente inerte per trent’anni contro i codici fascisti e ora tutto proteso a favore delle leggi Reale e Cossiga, peggio che fasciste.
A questo punto, ho dei dubbi. Quale fu la verità di via Rasella? Fu decisa per “necessità” di guerra o per “necessità” di partito, come qualcuno sostiene? È vero che gran parte dei quadri antifascisti e anche comunisti non direttamente organizzati nel PCI, che lo stesso Comando ufficiale della Resistenza romana erano contrari all’ipotesi dell’azione terroristica e furono contrari ai comportamenti successivi dei dirigenti del PCI? Come mai sembra che l’argomento sia restato tabù, che storici democratici non abbiano già scavato a fondo questo episodio, o che l’opinione pubblica di oggi ne sia così poco a conoscenza? La reazione pressoché unanime della stampa “di sinistra” o “democratica”, dolosamente o colpevolmente menzognera; quella del PCI, cosa celano?
Occorre sapere meglio, e non solo a proposito di via Rasella ma per esempio a proposito delle foibe triestine e giuliane, quali strascichi dei comportamenti tremendi, pienamente assassini della direzione estera del PCI ed in particolare di Togliatti negli anni degli stermini stalinisti (se possibile peggiori di quelli dei »terroristi perché non compiuti da “ossessi” nihilisti e dostojeskiani) si siano avuti da parte di dirigenti anche attuali o siano oggi difesi stranamente (con la violenza e la menzogna) da chi comanda nel PCI.
Occorre forse meglio valutare, anche, quanto solidarietà doverose e nobili siano fatte scadere, da parte di non-comunisti, in complicità particolarmente gravi e sintomatiche, complicità che sono il “presente”, se esistono, e non il “passato”.
Una classe dirigente antifascista erede della cultura fascista
Insomma è tempo che la Resistenza sia onorata con la verità; difesa, nella storia, nella verità, nella verità grandiosa e tragica che fu la sua. Il “mistero” di una classe dirigente “antifascista”, resistenziale che è divenuta storicamente l’erede delle strutture e non di rado, della cultura politica e costituzionale fascista, che ha fatto e fa sempre più strage della Costituzione repubblicana e antifascista, potrebbe trovarsi meglio decifrato. L’anno trascorso dallo scontro su via Rasella ha portato e continua a portare altri elementi al mio dubbio che fra terroristi di oggi e grandi assassini o terroristi di ieri vi siano sintonie quanto meno “oggettive”, e convergenze pratiche.
Mi chiedo se con queste note ho già fugato dubbi o rese più dubbie le certezze di Ernesto Galli Della Loggia e della sua puntuale, singolare, ricca intelligenza. Non credo, infatti, che la sua critica sia di poco conto. Se fondata, la condivido. Se la nonviolenza diventa ideologia o utopia con lui la ripudio, e la temo. Se ho dato anche solamente l’impressione di condividere, altrimenti o nel contempo, l’impostazione “progressista”, neo o proto-positivistica di certa sinistra europea oltre che italiana, l’“irenismo celestiale” (o animale: Qui veut être ange est bête, Pascal) di pur cari amici e fratelli non a caso caduti dalla prestigiosa padella della CEI nella brace un po’ squallida di qualche sezione di periferia di altra chiesa, non sono più io che parlo, ma l’arteriosclerosi dei miei ormai raggiunti cinquanta anni. Non credo alle “virtù”, o a quel che in genere loro si presta. La nonviolenza, come la libertà, come l’amore (mi consente, Galli Della Loggia?) è infatti per me “possibile” scelta, possibile creazione comunque dialogica, cioè sociale, collettiva. Dunque si tratta di un “modo” di essere, di una “forma”: politici e non morali. Ho sempre rispettato come parimenti anche se diversamente “morale” e “legittima” ogni posizione fondata su quel che per me sono “storicamente” dei non-valori, o valori opposti ai miei: autorità contro libertà, anche guerra e violenza contro dialogo e pace.
Abbiamo tutti, per motivi generazionali, quel tanto di storicismo e quel tanto di hegelismo che dovrebbe renderci immuni da certi pericoli che invece Galli Della Loggia sembra poter scorgere come caratterizzanti nella mia azione. O, se preferisce, l’aiuto del catechismo canonico del dia-mat, o il “materialismo storico”. Né, lo confesso, mi interessa la fine della storia umana per raggiunta perfezione nonviolenta o libertaria o socialista, più di quanto non mi convinca il contrapposto pessimismo pseudo-realistico dei tenutari dei misteri della real-politik, e del giustificazionismo pseudo-storicistico.
Anch’io, come Galli Della Loggia, diffido degli irenismi e degli utopismi, ma anche in nome dei “valori” dell’utopia e della felicità per chi coscientemente e storicisticamente, ragionevolmente li ritiene attuali e perseguibili, prefigurabili e “per sé e altri” vivibili. Basta questo per rimproverarci la ricerca di nuove contraddizioni, vive e vitali, anziché esser sepolto anch’io sotto quelle, putride e putrefacenti, della nostra cultura ufficiale, quella dello Stato, del “Partito”, della Chiesa, della Setta, delle Brigate e terroristi vari?
Stame: un caso di voyeurismo politico
Ho sempre temuto anche il tanto proclamato, e civile, senso dell’humour; e anche l’ironia. Ma quando leggo Federico Stame m’accade a volte di rammaricarmi che gliene manchi anche l’ombra d’un sospetto. “Cesarismo”? Basta dunque qualche piccolo segno scambiabile – per stanco ripiegamento da esteta del sociale, per voyeurismo politico – con uso o desiderio del potere, di un qualsiasi potere senza il quale “cesarismo”, “bonapartismo”, “mussolinismo”, “gollismo” ma anche “ciceruacchismo” non sono nemmeno evocabili?
Mi spiace, Stame. Ma se qualcuno ha esistenzialmente bisogno di vivere o morire da Bruto non sarò io a dargliene l’occasione o la possibilità. Claudio Martelli, su Mondo Operaio, dovendo scrutare quali rischi mai potessero insidiarmi e insidiare la nostra “politica”, evocò quello di Don Juan penetrante nei talami e nelle coscienze, oltre che nei parlamenti e nei partiti, attraverso gli audiovisivi, così mostruosamente componendo o scomponendo l’amore nel politico, e il politico nell’amore. Confesso che questa sua fantasia mi appare almeno più suggestiva e meno improbabile. Se non fossi vaccinato contro ogni Sturm und Drang, contro ogni suggestione romantica, se non fossi radicalmente nonviolento e interessato alla contiguità di amore e vita, e non di amore e morte, direi che tutta la tragedia che si potrebbe attendere da me è, appunto, di natura “privata”. Ma così non credo che sia. Lascio a Franco Fortini il culto della “tragedia”, mentre serbo per me quello del “dramma”, del dialogo e della vita. Anche in “politica”.